CONTROVIRUS | Linee guida internazionali

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Clelia Di Serio, Professore Ordinario di Statistica Medica ed Epidemiologia, Università Vita-Salute San Raffaele Milano

Il momento storico inedito che stiamo vivendo, tra le tantissime difficoltà che dobbiamo affrontare da tutti i punti di vista, ci mette anche di fronte a un bombardamento di informazioni, numeri e termini tecnici che spesso, invece di aumentare la conoscenza, aumentano la confusione non avendo gli strumenti per gestirli. Vorrei cercare di seguito di chiarire, insieme ad alcune considerazioni generali sull’emergenza COVID-19 anche una terminologia solitamente riservata agli addetti ai lavori e che oggi è diventata di utilizzo “comune”.

Trovarsi come epidemiologi e statistici ad affrontare una catastrofe emergenziale come quella che stiamo vivendo mette in grandissima difficoltà per l’impossibilità di riuscire ad affidarsi a un “dato” che sia davvero “informativo” e che permetta di applicare quella logica scientifico-deduttiva tipica della nostra disciplina. Chiunque si rivolga a noi in questi giorni ci pone quasi sempre le stesse domande: avete modelli per l’evoluzione dell’epidemia? Quando ci sarà il picco? Perché l’Italia, e in particolare la Lombardia, mostrano una suscettibilità all’infezione e un tasso di mortalità così fuori sia da qualunque previsione sia da qualunque rapporto con i dati di altre nazioni? È vero che l’Italia è affetta da un COVID-19 mutato e più aggressivo? Quando finalmente terminerà l’epidemia e torneremo alla normalità?

Sono domande fondamentali cui non è facile dare una risposta alla ricerca della quale tutti gli scienziati del mondo stanno lavorando giorno e notte. Dal punto di vista dell’epidemiologia, epi-demos-logos, “disciplina che studia la popolazione”, stiamo cercando di comprendere quali siano i fattori di rischio che possano determinare da un lato una maggiore o minore diffusione del virus e dall’altro abbiano impatto su una maggiore o minore mortalità e l’enorme differenza di suscettibilità individuale.

Quando l’emergenza Covid-19 è passata – anche da definizione dell’OMS – da essere epidemica (frequente nella popolazione ma localizzata e limitata nel tempo) a pandemica (estesa a tutta la popolazione) ci si è chiesto immediatamente come suggerire e testare modelli interpretativi basati sui dati i quali riescano a individuare regolarità e correlazioni tra fattori epidemiologici e ci aiutino ad assegnare delle probabilità a scenari futuri.

In mezzo alla bulimia informativa cui tutti sono sottoposti, c’è un concetto fondamentale che ormai anche gli addetti ai lavori hanno compreso: avere tanti dati a disposizione non significa avere tanta informazione. Una delle basi per riuscire a tradurre in informazione il dato è la rappresentatività del dato. Il grandissimo problema che stiamo sperimentando in questi giorni è la profonda mancanza di un’agenzia regolatoria europea e mondiale che dia degli standard di rilevazione dati sul COVID-19. Questo non ha niente a che fare con l’autonomia degli stati ma a che fare con la capacità di fornire linee guida comuni che permettano il data-sharing, ovvero la condivisione dei dati. In materie economiche questo esiste, ovvero esistono indicatori del reddito universali che permettono di confrontare le basi dati nel mondo. La mancanza di indicatori universali sul dato biomedico è stato sempre un enorme problema, ma nella situazione che stiamo affrontando diventa un problema tragico che si traduce nell’impossibilità di utilizzare l’esperienza altrui per evitarne gli errori e imitarne i pregi.

Come misuriamo quindi la “pericolosità” del coronavirus?
Innanzitutto bisogna distinguere tra pericolosità intesa come “velocità di diffusione/infezione” o intesa in termini di tassi di “mortalità” e “fatalità”.
La velocità di diffusione dipende, oltre che da elementi demografici e dalla aggressività del virus, dalla probabilità di contatto e dal numero di contatti, legati a fattori socio-culturali che sicuramente nelle società latine, basate molto sulla socialità e sulla famiglia, trovano un fattore peggiorativo e aggravante molto pesante. Infatti Italia e Spagna sembrano seguire un trend simile. Ma questo non è tutto. Molto spesso le politiche di sanità pubblica possono avere effetti molto gravi sulla probabilità di contagio se non sono accompagnate da una tempestività determinante. “Pre-annunciare” per svariati giorni la chiusura degli alimentari, causa ammassamenti immediati, cosi come la “fuga” di notizie su una chiusura delle frontiere regionali provoca interi treni di cittadini fuori-regione che “scappano” per tornare a casa diffondendo il contagio, e ancora diminuire le corse dei mezzi pubblici causa affollamenti nelle carrozze ai pochi orari disponibili. Le manovre di contenimento del contagio non sono affatto semplici né da prendere né da comunicare e possono avere in pochissime ore effetti devastanti. In una situazione come quella che stiamo vivendo comprendiamo di essere completamente impreparati a manovre di tipo emergenziale provenendo da un periodo di oltre 70 anni di pace e relativa prosperità.
La diffusione e l’aggressività determinano la pericolosità del virus misurata con il tasso di mortalità e di fatalità.

Il tasso di mortalità indica la percentuale, tra tutte le persone malate, di quelle che moriranno a causa della malattia quindi si riferisce alla popolazione media presente in un certo periodo. In altre parole, misura la probabilità che una malattia uccida chi ne è affetto, e quindi è un importante indicatore della “gravità” di una malattia e della sua importanza come problema di salute pubblica. Per cui calcolare il tasso di mortalità mentre l’epidemia è in piena evoluzione è molto difficile.

Il tasso di fatalità è il vero indice di gravità della malattia ed è più specifico e di solito viene riferito all’area e al profilo dei casi e soprattutto all’età. Spesso, con i virus di tipo “influenzale” è molto difficile isolare una fatalità specifica in fasce più fragili, in quanto qualunque tipo di virus o batterio rappresenta una minaccia, spesso letale, per i soggetti gravemente compromessi sanitariamente, basti pensare alla potenza devastante su anziani o pazienti immunodepressi delle cosiddette infezioni ospedaliere come quelle provocate dal comunissimo staffilococco aureo.
Anche la stima quindi del “tasso di fatalità” è comunque difficilissima ad oggi e può essere data solo in modo impreciso, in continua evoluzione.

La Fatalità = numero di decessi “specifici” / numero di casi “confermati” dipende dal numeratore e dal denominatore. Per quanto riguarda il denominatore, sicuramente è una sottostima e ad oggi i 300.000 casi sono solo una sottostima di un denominatore molto più vasto. I casi “confermati” stanno evolvendo con l’evoluzione dei criteri diagnostici per “confermare” la patologia: ciò che indubbiamente può far variare moltissimo il tasso di fatalità. Infatti, il numero di casi “confermati” in un primo momento in cui l’epidemia non era ancora “pandemia” comprendeva con maggiore probabilità anche gli infetti asintomatici che venivano testati solo in quanto possibili contatti di altri casi sintomatici.

Con il precipitare della gravità della situazione i test vengono fatti quasi ormai ai casi ospedalizzati e viene previsto un protocollo telefonico di assistenza “a casa” per i casi non gravi (spesso il medico di base monitora a distanza la febbre ritenendo 37, 5 gradi come la soglia sotto cui lasciare un decorso “home”). Tuttavia i test diagnostici – basati su tecniche di biologia molecolare – non sono ancora sufficientemente affidabili soprattutto nella rilevazione dei cosiddetti “falsi negativi” ovvero coloro che risultano negativi pur essendo infetti. Inoltre i test possono anche essere molto diversi in base alla compagnia farmaceutica che li brevetta con diversi livelli di sensibilità (probabilità che un malato risulti positivo al test) e specificità (probabilità che un sano risulti negativo al test) cosa che rende poco confrontabili gli stessi risultati dei test provenienti da nazioni diverse. Ad oggi quindi i dati sui “casi confermati” hanno seguito continue variazioni nella definizione, e i dati cinesi non sono confrontabili con quelli italiani o quelli svizzeri.

Ma il problema permane anche nella definizione del numeratore ovvero dei “decessi specifici”. L’annotazione della “causa di morte” è una delle cose più complesse nelle malattie infettive che spesso si sovrappongono, soprattutto a livello nosocomiale, a patologie pregresse. Dal punto di vista del medico è una domanda praticamente irrilevante, perché chiunque abbia scelto di curare pazienti e provare a salvare vite umane potrebbe non essere eccessivamente focalizzato sull’annotazione precisa della causa di morte ma solo sul come evitarla. Ogni decesso è una sconfitta, punto e stop. La domanda diventa però lecita se trasportata nel campo statistico: perché ancora una volta coinvolge le modalità di raccolta dei dati. In Italia è stato adottato finora un criterio estensivo: ogni paziente deceduto e positivo al test è stato comunicato come un “decesso Covid-19”. Addirittura nella casistica sono entrati decessi con tampone eseguito “post mortem”. Adesso, nella fase più difficile dell’epidemia, i tamponi sono stati riservati a chi ha una sintomatologia importante e necessita di ricovero: si tratta di una modifica nel criterio intervenuta da poco. In Germania il decesso viene dall’inizio classificato come decesso da coronavirus se è attribuibile a problemi respiratori producendo quindi un dato molto poco paragonabile.
Pertanto fare una stima del tasso di mortalità o fatalità diventa molto difficile in questa fase dell’infezione.

Molti stati (Sud Corea e UK) hanno deciso di bloccare la diffusione del virus puntando sulla cosiddetta “immunità di gregge”. Di che cosa si tratta? L’immunità, da un virus o da un batterio, interviene quando il sistema immunitario abbia sviluppato anticorpi per combattere il virus o naturalmente o tramite vaccino ed è pronto a contrastarlo per evitare una ricaduta o una infezione. L’immunità previene anche la trasmissione: il proprio corpo non può più essere un vettore per il virus e non può trasmetterlo nemmeno a individui non immuni. Quando in una comunità ci sono molti che rappresentano un “vicolo cieco” per il virus, allora lo spread dell’infezione rallenta fino eventualmente a fermarsi del tutto. Questo rappresenta una “immunità di gregge”. Il problema però è: a che prezzo avviene questo processo? Dipende da un lato dalle caratteristiche del virus che ancora non sono del tutto note. La cosiddetta “ricaduta” nell’infezione dipende dalla “memoria immunologica” del nostro corpo e da quanto venga intaccata specificamente dal virus. Infatti la resistenza alla seconda infezione riflette una condizione durevole di memoria immunologica contenuta nei linfociti T e B. Non sono però rarissimi i casi di cosiddetta “amnesia immunitaria” provocata da un virus, ovvero un effetto di immunodepressione generale o parziale che può portare il nostro organismo a “dimenticare” la memoria immunitaria, ovvero gli anticorpi acquisiti dopo anni di battaglie contro virus e batteri con le proprie risorse naturali o con i vaccini. Proprio lo scorso anno in novembre Science pubblicava evidenze su questo effetto amnesico dovuto al virus del morbillo, che infatti si presenta come pericolosissimo per gli adulti e gli anziani. Quindi, in assenza di approfondita conoscenza di un virus, puntare qualunque politica sanitaria, come nel caso dell’Inghilterra, sul perseguimento della immunità di gregge rischia di essere estremamente pericoloso per una popolazione.

Cosa si può concludere allora sull’andamento di questa pandemia e sul confronto di pericolosità della stessa tra i vari stati? E cosa sui possibili interventi?

Sono tanti i dati che noi statistici ed epidemiologi stiamo raccogliendo in tutte le parti del mondo per riuscire a simulare una curva di sviluppo del virus nel tempo. Abbiamo fattori di rischio ovvi, come età e fumo. Altri meno ovvi, come il peso e il genere, per cui le donne sembrano avere in media una probabilità di ammalarsi sotto il 30% rispetto agli uomini. E infine alcuni ancora molto dibattuti, come il ruolo delle polveri sotti (PM10) che potrebbero agire in tanti modi, al pari del fumo, depositandosi man mano nell’apparato respiratorio, fino a danneggiarlo o indebolirlo rendendolo più “prono” a sviluppare polmoniti interstiziali dovute al COVID-19.

In conclusione, in realtà non si può inseguire il singolo dato, ma è solo dalla combinazione di molte informazioni che si potrà capire come si espande, come uccide e come si può fermare questo virus. Sicuramente il fatto che in Germania il 70% dei contagiati fosse nella fascia di età compresa tra i 20 e i 50 anni, con un’età media intorno ai 40 (da noi sfiora i 70) è un dato sorprendente e legato molto sia alla componente demografica (gli italiani sono una popolazione più longeva) e culturale (gli anziani vivono in Italia con le famiglie) sia a una di sanità pubblica molto efficiente (gli anziani debilitati possono contare su una gestione nosocomiale più “dedicata” che non li mettano in condizione di ricovero promiscuo con possibili agenti infettanti).
Quindi è evidente come in Germania il virus abbia finora attaccato la parte più forte e presumibilmente più sana della popolazione; mentre in Italia, colpendo in larga parte i più anziani, tocca soprattutto soggetti con difese immunitarie meno efficienti e già con un tasso di mortalità molto alto.

Nel breve periodo, pertanto, una politica di quarantena seria per gli infetti, il più antico rimedio nelle pandemie, è ancora l’unica strategia efficace perché in grado di ritardare il picco delle infezioni, di alleggerire il sistema sanitario. Questo in attesa, da un lato che i nuovi protocolli di cura e vaccino si sviluppino, e dall’altro che effetti naturali come quelli (ancora non testati) sia dell’immunità di gregge che della stagione calda (i raggi UV dovrebbero agire positivamente sulla inattivazione della capacità di replicazione del virus) blocchino questa avanzata che oggi sembra così inesorabile ma che in un domani molto vicino in speriamo di poter considerare come un bruttissimo incubo da cui ci siamo risvegliati molto più consapevoli.

Nel lungo periodo probabilmente solo una profonda riflessione sulla incapacità globale dimostrata in questi mesi nel gestire una emergenza di salute mondiale ci potrà spingere veramente nella direzione di politiche di reale “global health” sempre annunciata ma mai perseguita, politiche che debbano puntare alla difesa dei più fragili passando inevitabilmente anche dalla tutela dell’aria che respiriamo che resta il nostro bene più prezioso.