CONTROVIRUS | E la pandemia economica?

<span class='cat'>CONTROVIRUS |</span> E la pandemia economica?

Condividi

Giovanni Barone Adesi, Professore di Teoria Finanziaria, Università della Svizzera italiana

L’epidemia di Covid-19 impatta notevolmente la vita sociale ed economica di molti Stati. A parte la Corea del Sud, che ha adottato una strategia inedita e, sembra, vincente, molti altri dei Paesi colpiti hanno dovuto arrestare buona parte delle loro attività economiche non essenziali.

La Corea ha evitato il blocco dell’economia tracciando, attraverso i telefonini, i percorsi degli infetti rilevati nei giorni precedenti, chiedendo a chi si fosse trovato nelle vicinanze di presentarsi per esami medici e mappando su una app il rischio delle varie aree. Si tratta di misure che soltanto una società molto solidale, tecnologica e con la memoria recente dall’epidemia SARS poteva mettere in atto.

I mercati finanziari hanno risentito pesantemente dell’epidemia. Tanto più che molti paesi hanno inizialmente posto ostacoli al commercio, anche di prodotti sanitari essenziali, nel vano tentativo di proteggersi a scapito degli altri. Il rallentamento delle attività economiche, aggravato dall’incertezza sulla sua durata, ha impattato pesantemente il valore dei titoli borsistici. Anche beni rifugio tradizionali, come l’oro, ne hanno risentito. La ricerca di dollari per i pagamenti ha portato a ridimensionare quasi tutte le quotazioni.

Il crollo delle quotazioni non colpisce soltanto la ricchezza degli investitori, tra i quali gli istituzionali, come fondi pensione, ma minaccia di trasformare la crisi originata da un virus, che speriamo sia stagionale, in una depressione economica permanente. Una minaccia che non è sfuggita ai governi i quali, memori della crisi del 2008, hanno deciso che una risposta graduale sarebbe stata fuori luogo.

La Svizzera è passata da dieci a quaranta miliardi di aiuti all’economia in quarantotto ore. Gli altri Paesi europei hanno anche promesso aiuti, nei limiti delle loro possibilità. Gli Stati Uniti sono passati da cinquecento miliardi di dollari a due trilioni, annunciati dal consigliere economico di Trump, Kudlow, sabato sera, con l’accordo provvisorio di repubblicani e democratici.

A parte la Svizzera, gli altri paesi avranno bisogno di indebitarsi pesantemente per far fronte a queste decisioni. Molti di questi soldi saranno necessariamente spesi male, ma l’urgenza della situazione non consente riflessioni approfondite sull’efficacia delle singole misure.

Nel caso degli Stati Uniti, è prevista anche la distribuzione di contanti alla popolazione. Questa misura, nota come helicopter money da un celebre saggio di Milton Friedman, è già stata sperimentata nella crisi del 2008, quando ciascun contribuente americano ricevette un assegno per trecento dollari. Un importo che può sembrare minimo, ma è vitale in una società nella quale la classe media è perennemente sovraindebitata, e adesso minacciata di disoccupazione

Sembra quindi che tra le vittime del Covid-19 dovremo annoverare la parsimonia, già quasi ovunque in pessima salute dopo decenni di giganteschi deficit pubblici. Gli Stati utilizzeranno, giustamente, tutte le loro armi per evitare il peggio.

Si porrà però il problema di come gestire i conti pubblici dopo la fase iniziale, nella quale le banche centrali acquisteranno il nuovo debito e forniranno la liquidità necessaria. Rimborsare questi debiti in termini reali richiederebbe per quasi tutti i Paesi inasprimenti della pressione fiscale. Questi inasprimenti vanificherebbero gli sforzi in atto per sostenere l’economia. L’alternativa di tenere questi debiti parcheggiati presso le banche centrali, possibile nel medio termine, impedirebbe a queste ultime di alzare i tassi d’interesse qualora, a lungo termine, diventasse necessario. Inoltre l’insolvenza degli Stati sarebbe una soluzione drammatica che nessun governo desidera affrontare. Resta quindi solo l’alternativa di stampare moneta, che conduce a una prolungata inflazione.

Probabilmente quasi tutti i paesi sceglieranno quest’ultima strada, che i sessantenni ricordano dalla loro gioventù: allora quasi tutti i Paesi inflazionarono la loro moneta. La Svizzera all’epoca mantenne la stabilità monetaria, ma dovette contendere con una massiccia rivalutazione del franco, che richiese un lungo processo di adattamento per l’industria elvetica.