CONTROVIRUS | Geopolitica e coronavirus

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Lucio Caracciolo

Inizia con questo articolo la collaborazione tra BrainCircle Italia e la rivista Reset che dal 1993 esplora le questioni politiche e culturali più importanti a livello internazionale.

Di seguito un’intervista di Umberto De Giovannangeli a Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più autorevole rivista italiana di geopolitica, su scenari futuri e crisi attuali della pandemia.

Da più parti si è detto e scritto che nulla sarà più come prima, dopo il flagello del COVID-19. Sul piano delle relazioni e degli equilibri internazionali, quali scenari potrebbero configurarsi?

Le basi della partita restano le stesse. Bisogna vedere fino a che punto i principali protagonisti ne saranno intaccati. Il punto fondamentale ruota attorno alle relazioni Stati Uniti-Cina. Dopo aver perso parecchie posizioni e molto prestigio, la Cina è tornata all’offensiva, profittando anche del ritardo con cui Trump ha reagito al virus. Noi italiani siamo oggi il paradigma della sfida sino-americana. Pechino sta approfittando abilmente delle esitazioni americane per conquistare influenza e spazio nel nostro Paese con una politica degli aiuti che ha non solo un significato umanitario ma un effetto geopolitico. In parole povere, la Cina ha acquistato credito presso di noi e se noi ce ne dimenticassimo, ce lo ricorderà.

E la Russia di Putin? Anche Mosca è corsa in aiuto dell’Italia…

La fotografia degli ufficiali russi e italiani, che studiano cameratescamente insieme le vie di comunicazione lombarde, è il ritratto della sapiente strategia di Mosca, che a suo modo ricalca quella cinese. Con il sovrappiù di una storia di rapporti, simpatie, affari che risalgono indietro nei decenni. Anche Mosca ha guadagnato posizioni in Italia e ne farà sicuramente un uso adattato ai propri interessi.

In questo scenario, cosa resta delle vecchie alleanze?

Le alleanze nel senso stretto del termine, non esistono più. Certo, esiste la NATO, sulla carta di gran lunga la più grande organizzazione militare del mondo. In realtà, una famiglia separata di cui gli stessi americani si fidano poco. Se le cose dovessero volgere verso la guerra, gli Stati Uniti faranno da soli, usando al massimo polacchi, baltici e rumeni.

Il che ci porta dritto all’Europa. Sopravviverà al coronavirus?

Se per Europa intendiamo il continente, sì. Se invece intendiamo l’Unione Europea, pure, cioè come organizzazione dell’ostilità reciproca tra gli europei. Già si nota come il virus abbia approfondito la faglia tra le “formiche” nordiche e le “cicale” del Sud. Nemmeno la pandemia riesce a dissolvere la sfiducia.

Questa emergenza planetaria non pone anche un problema di leadership?

Esiste un problema di leadership in diversi Stati nazionali. Ma in questa emergenza, le leadership e comunque le autorità, non possono molto se non esiste una risposta omogenea da parte delle rispettive nazioni: basti vedere come leader quali Boris Johnson e Donald Trump abbiano virato la loro comunicazione di 180 gradi in pochi giorni. Per la verità, più Johnson che Trump.

L’“era” del coronavirus segna la fine dei sovranismi nazionali?

Non mi pare proprio. In questo momento il confronto politico-ideologico è sovrastato dall’emergenza e francamente non ne sentiamo la mancanza. Il nazionalismo esiste, esisterà e probabilmente sarà più forte alla fine di questa emergenza. L’idea stessa di una integrazione politica europea ne esce sostanzialmente intenibile. Sarà quindi molto arduo ma necessario ritrovare le ragioni della cooperazione in Europa e nel mondo, oltre le ormai squalificate organizzazioni regionali e internazionali.

Sul piano geopolitico, l’area che più investe l’Italia, è quella del Mediterraneo. Come si ridefinirà quest’area e quali ricadute avrà sul nostro Paese?

Sotto il profilo economico, e quindi sociale, il colpo sarà tremendo. Per un Paese come il nostro, così vincolato al commercio internazionale, il declino dei traffici e l’emergere di nuove barriere sono un prezzo quasi insuperabile. L’unica speranza è che questo regime, finita l’emergenza, possa essere davvero superato, ma quello che si vedeva già prima, e cioè un chiudersi di ciascuno in se stesso, potrebbe rivelarsi una tendenza più duratura del virus.

L’emergenza sanitaria costringe tutti a ripensarsi. Anche la comunicazione. Da direttore della più autorevole rivista italiana di geopolitica, quale è la sfida più impegnativa e pressante?

La sfida è quella di riuscire a mantenere uno sguardo non troppo emotivo, non troppo fissato sull’attualità, semmai orientato a indovinare, almeno per sommi capi, il dopo-virus. Esercizio quasi impossibile ma obbligato. A renderlo particolarmente arduo è la comunicazione ossessiva della crisi, che aumenta l’angoscia e ottunde il cervello.

A proposito di una comunicazione “ottundente”. Va molto in voga di questi tempi “virali” l’affermazione secondo cui saremmo tutti in guerra e tutti dalla stessa parte della barricata.

Questa non è una guerra, è una pandemia. La logica di guerra si applica a un nemico, non a un microbo. A forza di parlarne, però, creiamo una mentalità di guerra e seminiamo gli ingredienti sufficienti a produrla, Nel caso sarebbe probabilmente una sequela di guerre civili provocata dalle fratture interne alle società tormentate dal morbo.