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Ci sentiamo per la prima volta fragili e minacciati. La tranquilla routine assicurata a molti dallo Stato sociale e dall’Economia dei consumi è stata, da un giorno all’altro, abolita da un decreto caduto dall’alto. Siamo in guerra – ci è stato detto – e come in tempo di guerra non vale la legge comune, ma lo stato d’eccezione. Ordiniamoci nella mobilitazione totale: alcuni al fronte, nella prima linea, altri nelle retrovie, per assicurare i servizi essenziali, la maggioranza reclusa nei rifugi domestici (almeno quelli che ne dispongono): isolati ma connessi, per ascoltare i bollettini di guerra, con la loro litania funerea e l’appello ai buoni sentimenti.
Realtà o realtà percepita? Vissuto o rappresentazione? Non mancano i buoni consigli degli psicologi, profusi da ogni emittente televisiva, radiofonica, elettronica, cartacea, i medici dell’anima, non meno agguerriti dei medici del corpo. Datevi una regola quotidiana, per non cadere nella nevrosi della spontaneità impedita e nella depressione dell’abbandono al proprio ego. Concentratevi sulle piccole cose e le necessità primarie, createvi una routine, delle abitudini fisse, per non smarrire il senso del tempo e del suo scorrere uguale. Curate i rapporti interpersonali e recuperate il senso di vicinanza tra genitori e figli, costretti in una clausura minacciosa e non priva di pericoli. Leggete un libro (già, da quanto tempo non leggo un libro per intero? Sarò ancora in grado di farlo? E poi, ne ho veramente voglia?), ricucite relazioni di cui avete perso traccia (tanto ci sono le tecnologie a facilitarvi il compito), ecc. Coltivate le piccole virtù: pazienza, parsimonia, ingegnosità tecnica, gentilezza, empatia, oppure, se siete obbligati a farlo, le virtù cardinali della fortezza, della prudenza, della temperanza, della giustizia. Dopo tutto la crisi è anche un’occasione, e chissà se non usciremo migliori, anziché peggiori, dalla prova? Insomma, non basta curare l’igiene del corpo, ma è anche più necessario avere una regola d’igiene della mente o (come si diceva un tempo, e ora a stento solo i preti si ricordano di dire) dell’anima.
L’aspetto che più mi colpisce, in questo psicodramma collettivo, è proprio la distanza tra le parole e le cose. Anzitutto la scelta di un termine improprio (guerra) per definire la cosa (pandemia), con l’inevitabile corollario retorico che esso si porta dietro: obbedienza, patriottismo, sacrificio, caduti, paura, coraggio, eroismo, fronte, nemico, traditore, falsa propaganda, ecc. E, in secondo luogo, il profluvio comunicativo, il rumore dissonante con cui ci si sforza di riempire l’effettivo vuoto in cui siamo subitamente precipitati, il silenzio che non sappiamo affrontare. Eppure, se spegniamo la televisione e ci affacciamo alla finestra, la realtà percepita, non quella rappresentata, la sensazione che ci trasmettono le cose, è proprio l’abbassamento del volume dei suoni e delle voci, l’assenza di fastidio e di invadenza del rumore, persino (se si è in luoghi che lo consentono) la migliore qualità dell’aria, la pace e il silenzio. Aristotele diceva che questa non diretta corrispondenza tra parole e cose non deve stupirci, perché le parole significano i nostri sentimenti, mentre le cose affettano i sensi. Il vero esercizio quotidiano, la autentica igiene della mente, a cui questa drammatica pandemia ci richiama è dunque in un recupero della capacità di ascoltare il silenzio, di misurare le parole e l’ansia della comunicazione, per ritrovare una misura umana dei nostri discorsi, una corrispondenza più diretta tra il dire e il sentimento che in esso si esprime. Maestri di questa sapienza – lo sappiamo – erano i monaci, i solitari, sulle cui spalle ha poggiato per secoli la virtuosità cristiana. Solo quando la parola promana dalle profondità del silenzio, quando la voce si fa canto (non della natura, ma dello spirito), essa acquista un potere di edificazione e di illuminazione della socialità. Un filosofo morale neo-aristotelico, teorico del comunitarismo, Alasdair MacIntyre, in conclusione della sua disamina della crisi del linguaggio morale, nel fondamentale libro After Virtue (1981), non esitava ad invocare (non immemore forse dei propri trascorsi marxisti), come possibile storico rimedio alla sordità comunicativa del tardo capitalismo, l’avvento congiunto di un nuovo Trockij e di un nuovo San Benedetto!
Se il discorso del filosofo americano di origini scozzesi poteva suonare utopistico e provocatorio (e intendeva forse esserlo), il suo richiamo alla necessità di restituire senso al linguaggio della morale, in cui si esprimono i sentimenti, è quanto mai opportuno, nel clima sospeso che stiamo vivendo. Si dice che dobbiamo uscire migliori dalla battaglia contro il virus. Sappiamo in realtà che ne usciremo più impoveriti e più incattiviti (i segnali non mancavano del resto anche prima). I richiami retorici al risveglio delle energie e delle italiche risorse patriottiche nel dopoguerra non suonano del resto di buon auspicio. È la solita esaltazione degli spiriti vitali, della distruzione creatrice delle forze economiche del capitalismo, a prendere realmente voce in questi appelli. Il cinismo del buon senso popolare ha sempre trovato consolazione in un concetto più modesto: chi muore giace e chi vive si dà pace! Un grande filosofo e un Giusto del Novecento, il cecoslovacco Jan Patočka, invocava la solidarietà degli scossi, la viva memoria della sconfitta del bene e della sua volontà di rivincita nel polemos tragico della storia, come risposta al cinismo dell’uomo comune. Ma la prova (per quanto dura) a cui siamo sottoposti in questo tempo non ha la tragica grandezza e vastità che dovettero affrontare i nostri avi, e quel richiamo a una concreta solidarietà assume contorni più modesti e alla nostra portata.
Quella di cui abbiamo bisogno è maggiore sobrietà e capacità di riserbo e di silenzio. Qualcuno potrebbe azzardare anche di pudore, se pensiamo al grado di volgarità e sfrontatezza a cui si era ridotta la nostra comunicazione pubblica prima di questa provvidenziale (?!) pandemia. Dovremmo esercitarci in privato a una maggiore attenzione ai nostri sentimenti e alle parole che cercano (non sempre in modo fedele e adeguato) di esprimerli. Dovremmo imparare a distinguere quanto di naturale e quanto di risentito si è depositato in essi col tempo e l’abitudine.
Non siamo ancora riusciti (come nazioni e come popoli) a liberarci degli stereotipi e degli odii che le vecchie generazioni ci hanno trasmesso. Il risentimento più che la memoria dell’esempio e l’elaborazione del lutto, è il suggeritore di gran parte del discorso pubblico e della retorica politica contemporanea. Come un riflesso di tale sentimento distorto, la aggressività e la violenza si sono riversati anche nel linguaggio personale, nella comunicazione sociale dei singoli. Ce ne lamentiamo, ma non sappiamo rinunciare facilmente a questa pronta e facile rivalsa della nostra frustrazione. Un piccolo esercizio quotidiano: pensare a quale sia il nostro sentimento più costante, il “basso continuo” su cui moduliamo la nostra personale “melodia” discorsiva. Pensare a quanto di naturale e personale e quanto di abituale e posticcio vi si è sedimentato. Trovare le giuste parole per esprimere queste sfumature del sentimento e queste variazioni dell’umore. Tacere ciò che va taciuto e provare a dire ciò che va detto, e che forse non siamo mai stati capaci di dire. Disciplina del sentimento e del linguaggio: forse qualcosa di migliore, in ciascuno, si può ancora trovare e riavviare.