CONTROVIRUS | Ora basta!

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di Umberta Telfener, psicologa clinica

Adesso basta! Siamo stufi di essere trattati come bambini ed è ora che una rappresentanza dei cittadini possa dire la sua.

Se rispetto alla riapertura del Paese stiamo – forse – per entrare nella fase due, a livello psicologico sono almeno tre le fasi molto diverse che stiamo vivendo e in questo momento la rabbia e la paura la fanno da padroni. Mi vado a spiegare.

C’è stata una prima fase di stupore e comune vicinanza, una prima fase – alla notizia della letalità del virus – in cui ci siamo tutti stretti gli uni agli altri con disciplina. Si disquisiva sulla lezione che il virus ci stava insegnando, si imparava a stare da soli, a centrarsi, a mostrare ottimismo e solidarietà. Si inneggiava alla natura che stava riprendendosi il mondo, tutti insieme contro un nemico comune che identificavamo fuori dalla porta di casa. Fuori c’era la catastrofe e noi pensavamo al mondo roseo che avremmo costruito poi: una strategia generativa e adattativa per affrontare il pericolo.

È subentrata poi una seconda fase di incantesimo di quotidianità o sindrome da tana, in cui la sensazione è stata quella di svegliarsi ogni giorno allo stesso giorno, di essere diventati monadi chiuse nel guscio. Circolava la preoccupazione che si stesse agendo in modo frenetico dando per scontate le premesse sul funzionamento del virus, premesse che non sono mai state verificate/confutate. Azioni e proposte che aumentavano i divieti pur restando sempre all’interno dei nove punti (caro lettore risolvi il gioco che ti propongo e capirai di cosa sto parlando).

Unire tutti i nove i punti con quattro linee rette continue senza mai alzare la penna

Si è cominciato a parlare dell’errore umano nella cura e contemporaneamente si è regrediti nel ventre materno, rassicurati dallo stare a casa, al confino, con diminuite responsabilità, con una buona scusa per ridurre gli stimoli e ricadere in abitudini sempre uguali, anche un po’ noiose. Certamente ipnotiche. Protetti, al calduccio. “Anche solo aprire il portafoglio è già faticoso” mi ha detto qualcuno. In questa fase la paura per alcuni è stata quella di morire, molti altri l’hanno esorcizzata con la routine.

Siamo ora nella terza fase psicologica, quella in cui immaginiamo di ripartire e abbiamo paura di tornare a lavorare nel mondo. Dobbiamo ritornare alla vita normale, ma cos’è normale ora, dopo questa iniezione di iper-realtà che il virus ci ha proposto? Abbiamo giustamente paura che le nostre ipotesi di un mondo diverso verranno deluse e ci si riproporrà la solita e conosciuta frenesia, senza riuscire a trovare un nuovo equilibrio. C’è una grande incertezza sul futuro, c’è disorientamento. Abbiamo perso l’illusione rassicurante che qualcuno si stesse occupando di noi e questo ci fa paura: è meglio immaginare che qualcuno sappia cosa sta facendo! Ma non lo pensiamo più, le 40 task force, i 240 consulenti aumentano l’incertezza anziché darci fiducia. Abbiamo ancor più perso ogni illusione comprendendo che il depauperamento del sistema sanitario ha – come al solito – arricchito le tasche di pochi, che il sistema territoriale nella Sanità (quello della Toscana, dell’Emilia Romagna e del Veneto, per intenderci) offre maggiori garanzie di intervento capillare rispetto a quello ospedaliero ed è più efficace, costa solo di più. Più di prima sappiamo di dover fare i conti con i vizi e le corruzioni di chi siamo, dobbiamo scendere dall’altare e ritrovarci nella polvere. Sono subentrati l’insofferenza, la paura, mentre le variabili di dubbio sono rimaste le stesse. Si sono perse l’idealizzazione e le speranze in un mondo migliore, senza che ci sia stata ridata la responsabilità della nostra vita: non riusciamo – per come veniamo trattati dal governo – a riprendere la vita nelle nostre mani.

Siccome faccio la psicologa, da anni sono abituata a cercare soluzioni ai problemi esistenziali che i pazienti mi portano. Anche oggi propongo alcuni possibili pensieri per non rimanere nella paura.

TRAMUTARE IL SOSPETTO IN FIDUCIA: le ricerche confermano che un clima di fiducia porta a un maggior numero di scambi interattivi e permette di cooperare, di funzionare meglio insieme. Una piccola notazione: la fiducia non si “ha” ma si “dà”, fino a prova contraria; è cioè un atteggiamento, un investimento nel mondo, nell’altro e nella relazione, implica un salto nel buio, una rinuncia al controllo e alla sicurezza. La fiducia dobbiamo come prima azione darla a noi stessi, assumendoci la responsabilità per il nostro vivere.

AGIRE VERSO UNO SVILUPPO SOSTENIBILE: uno sviluppo economico compatibile con la salvaguardia dell’ambiente. Significa imparare a vivere nei limiti di un solo pianeta, organizzandoci in maniera dignitosa ed equa per tutti, senza distruggere le risorse naturali. Significa pensarci interdipendenti con il mondo, con la natura e tra noi. Si tratta di abbandonare un modello lineare e semplice, generalizzato, scientista, per abbracciare la complessità e la complementarietà dei punti di vista, che funzionano su scala locale in maniera aperta, flessibile e dinamica. Non imposizioni che provengono dall’alto, ma la partecipazione responsabile di ogni cittadino nel suo piccolo.

PENSARE IN PICCOLO E DAL BASSO: i giornali già ci dicono di singole situazioni locali di eccellenza, potrebbero aumentare e fare una differenza. Si è istituita la spesa sospesa, la possibilità in alcuni supermercati di pagare una spesa virtuale per chi ne ha bisogno. Alcuni quartieri hanno organizzato cene di quarantena in cui i ristoranti della zona portano a casa il cibo in modo da non chiudere e non licenziare il personale. Alcuni municipi stanno organizzando iniziative molto interessanti e solidali con la partecipazione attiva dei cittadini. Le comunità religiose e le organizzazioni non governative distribuiscono mascherine, disinfettante, cene e conforto ogni giorno, inventando soluzioni veloci per stare dalla parte dei deboli. Sempre più persone si attivano per dare una mano e fare la differenza attraverso la cooperazione.

ASSUMERE UN ATTEGGIAMENTO ETICO: etica non vuol dire la disposizione a fare le azioni giuste, non il “tu devi, tu non devi”, “io devo”, non l’etica come giudizio morale di qualcuno che dal di fuori sa meglio di noi. Le persone l’etica la incorporano con i loro atteggiamenti, le loro scelte, le azioni che mettono in atto, il linguaggio che utilizzano. Ci dobbiamo ricordare che ogni volta che agisco nel qui e ora non solo cambio io ma cambia anche l’universo perché l’atteggiamento etico che propongo lega in maniera inseparabile il soggetto e i suoi comportamenti a tutti gli altri.

Il mio maestro, Heinz von Foerster, fisico, epistemologo, filosofo della scienza di grande fama, mi ricordava sempre che in ogni momento siamo liberi di agire verso il futuro che desideriamo e sosteneva che B sta meglio quando A sta meglio. Teniamolo in considerazione!