CONTROVIRUS | Programmare la Fase 2

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Ascolta “Programmare la fase 2” su Spreaker.

Legge Manuela Kustermann

Questo articolo è frutto della collaborazione con il portale dell’ebraismo italiano

di Viviana Kasam, presidente di BrainCircle Italia

Mentre la curva dei contagi comincia in alcuni Paesi a stabilizzarsi, molti anche in Italia cominciano a pensare alla Fase 2, quella di un progressivo ritorno alla normalità. I problemi però sono parecchi, anche perché le incognite sono più delle certezze. Avremo in tempi non troppo lunghi una cura o un vaccino? Il virus si indebolirà e finirà per sparire, come quello della SARS e della MERS, o muterà e tornerà più forte, come successe con l’influenza del 1918?

A Hong Kong, a Taiwan e in Cina la situazione si sta normalizzando, almeno a giudicare dai dati e dalle immagini che ci arrivano. Due sono le misure messe in atto. La prima è l’utilizzo obbligatorio delle mascherine per tutta la popolazione. I filmati sui social e sul web sono impressionanti, il 100% delle persone riprese per strada la indossano. Alla faccia di chi sostiene che le mascherine non servano – pare che ci siano forti pressioni anche a livello di OMS per rivedere le linee guida che dichiaravano le mascherine poco utili. La Lombardia dal 5 aprile le ha rese obbligatorie a chiunque debba uscire.

La seconda misura, più controversa, è quella del tracciamento capillare di tutti i movimenti della popolazione, grazie all’utilizzo di app per monitorare i contatti e gli spostamenti e al QR Code sanitario che bisogna esibire entrando in ogni luogo pubblico, dal metrò all’ufficio, al condominio in cui si abita. Senza smartphone controllabile dalle autorità, non si esce di casa, e nel momento in cui si dovessero manifestare sintomi e fosse necessaria una visita medica o un ricovero ospedaliero, i dati memorizzati nel telefono verranno scaricati per monitorare l’attività sociale del paziente ed effettuare controlli sui suoi contatti. I problemi etici e di tutela della privacy che questo sistema pone sono evidenti, ma i cinesi non hanno avuto la possibilità di scegliere tra la salute e il lavoro o la protezione della privacy.

In Israele, dove nonostante le critiche feroci al governo l’epidemia è stata finora contenuta (7.000 casi, 357 guarigioni, 37 decessi a ieri), due prestigiose personalità industriali hanno presentato alla Knesset un modello di exit strategy dalla rigida quarantena alla quale Israele, come l’Italia, ha sottoposto la cittadinanza, per rientrare progressivamente alla normalità ed evitare il tracollo economico.

Si tratta di Amnon Shashua, CEO di MobilEye (la società che ha sviluppato la tecnologia per la guida autonoma, venduta nel 2017 per 15 miliardi di dollari a Intel, di cui Shashua è diventato Senior vice President), e Shai Shalev-Shwartz, professore di computer science presso la Hebrew University di Gerusalemme e Chief Technology Officer di MobilEye. Il progetto è stato pubblicato su No Camels, una interessante newsletter sull’innovazione tecnologica israeliana, sponsorizzata dalla Asper Foundation.

Shashua e Shalev-Shwartz si affidano al concetto dell’immunità di gregge (herd immunity) che incontra il favore di parecchi scienziati israeliani tra i quali il professor Hervé Bercovier della HUJ (chi lo desidera può ascoltare il webinar al quale ha partecipato, organizzato dalla Hebrew University of Jerusalem).

Il modello Shashua/Swartz prevede che la popolazione sia divisa in due gruppi: quello a rischio (le persone che soffrono di patologie croniche o che hanno più di 67 anni (età della pensione in Israele: quindi comunque non rientrerebbero al lavoro), e quello considerato a basso rischio, che può progressivamente ritornare a una routine pressoché normale, mantenendo un protocollo di distanziamento per rallentare il contagio. Il concetto che guida questa proposta, è che il virus si combatte lasciando che le persone considerate non a rischio si ammalino e guariscano, creando una larga fetta di popolazione immunizzata, che può non solo vivere una vita normale.

“Fondamentale è la progressività: il ritmo del contagio deve essere sostenibile dalle strutture sanitarie “ spiega Shashua. Questo è il nodo centrale per chi volesse applicare il modello israeliano, soprattutto in Italia, dove i letti in terapia intensiva e rianimazione sono fortemente sottodimensionati. E quindi la ripresa deve essere graduale, commisurata alla capacità ospedaliera e costantemente monitorata. “In Israele ci vorranno circa tre mesi – prevede Shasua – per tornare alla piena occupazione (attualmente la disoccupazione sfiora il 25%, un lavoratore su quattro). Sviluppata nella popolazione l’immunità di gruppo (calcolata nel 60% della popolazione), anche le persone più a rischio potranno uscire dalla quarantena”.

Per comprendere il concetto di herd immunity, bisogna immaginare i virus come un microscopico esercito che sopravvive nidificando nelle nostre cellule, dove si riproduce esponenzialmente a una velocità stratosferica. Se non riesce a farlo, perché una buona parte della popolazione è immunizzata e quindi non costituisce terreno fertile, l’esercito dei virus si indebolisce progressivamente e soccombe. La spiegazione non è scientificamente accurata, ma utile per dare un’idea. L’alternativa sarebbe di tenere tutti in quarantena per un lungo periodo, distruggendo l’economia: e chi garantirebbe che una volta ritornata alla normalità la popolazione, senza aver sviluppato l’immunità, non tornerebbe ad ammalarsi in massa?

Shashua e Shwartz hanno sviluppato dei modelli matematici di previsione, secondo i quali il rischio di mortalità nel loro modello non è superiore a quello di subire gravi traumi o morire in incidenti automobilistici. “E pur essendo consapevole del pericolo, la gente non rinuncia a guidare” sostiene Shashua.

Il punto debole di questa soluzione è che non è sicuro che la popolazione giovane non si ammali gravemente – ci sono parecchi casi di under-60 che hanno presentato sintomi gravi, e alcuni sono deceduti. E non è neanche sicura la durata dell’immunità, si parla di settimane o al massimo di mesi. Insomma, un terno al lotto: ma d’altronde il problema di questo virus è che lo si conosce davvero poco.

“Dobbiamo essere realistici” spiega Shashoua, “pensiamo davvero di poter tenere tutti in quarantena per un anno, un anno e mezzo, finché non ci sarà una cura efficace o un vaccino? E quali possono essere le conseguenze, anche sulla salute pubblica, di una depressione economica che metterà il Paese in ginocchio?”.

Insomma, la scelta proposta da Shashua e Shalev-Shwartz è quella del male minore, nella speranza che nel frattempo si materializzi la possibilità di disporre di cure efficaci o di vaccini ricavati in laboratorio o, ma è più improbabile, di una terapia sierologica ricavata dal plasma delle persone che sono guarite.

Una scelta non facile, ma forse necessaria, se lo scenario alternativo è una Grande Depressione, simile per portata a quella del 1929.

Il modello di Shashua/Shwarz prevede, come in Cina, il tracciamento degli spostamenti della popolazione, e molti illustri pensatori, in primis Yuval Harari hanno denunciato il pericolo della nascita di dittature alla Orwell.

Anche in Italia, sta emergendo la consapevolezza che senza un tracciamento individuale della popolazione, che consenta di identificare e seguire i contagiati, la fase 2 diventa problematica. Quali sono i reali pericoli di una misura di questo tipo?

Controvirus.it, il luogo che BrainCircle Italia ha creato per offrire riflessioni qualificate sulla pandemia, ha chiesto un parere al prof. Amedeo Santosuosso, responsabile scientifico del Centro di Ricerca ECLT dell’Università di Pavia, e membro della World Commission on the Ethics of Scientific Knowledge and Technology (COMEST-UNESCO) e autore del saggio Intelligenza artificiale e diritto (Mondadori Università, 2020). L’articolo, che pubblichiamo qui, è stato scritto dal prof. Santosuosso in collaborazione con Sara Azzini, e propone una soluzione ragionata per “rimettere in piedi il mondo” senza contravvenire alla necessità di tutela dei cittadini.