Dagli scantinati alla sala controllo del nostro cervello
La mente, diceva Einstein, è come un paracadute, funziona solo se si apre; se riusciamo dunque ad attivare tutte e tre le aree essenziali del cervello, che controllano il nostro comportamento: il complesso rettiliano, detto anche cervello primitivo, che reagisce al pericolo; il sistema limbico che sente emozioni e sentimenti; la neo-corteccia che ragiona e progetta.
Immaginiamo il nostro cervello come una palazzina a più piani: le prime due aree, quelle più antiche corrispondono un po’ ai livelli inferiori del nostro edificio, e hanno più a che fare con le risposte automatiche e il subconscio.
La neocorteccia, invece, è molto più simile alla sala di controllo e di comando di una missione. Ed è spesso descritta come il cervello esecutivo, soprattutto i lobi frontali, noti per ospitare i più alti livelli delle nostre abilità di pensiero e di pianificazione.
Queste tre sezioni funzionano in modo gerarchico, seguendo un principio: gli impulsi più basici vengono progressivamente raffinati e infine razionalizzati. Ecco perché la paura è la più ancestrale delle emozioni, un’emozione sviluppata per tenerci lontani dal pericolo; è un segnale d’allarme fondamentale per capire che qualcosa non va. Non sorprende dunque che si sia evoluta nella maggior parte delle specie animali: la gazzella, davanti a un leone, scappa.
Come sarebbe vivere senza paura? Come sarebbe la nostra vita se non temessimo più il dolore, i pericoli, la morte? Forse molto, molto più breve: è evidente che la paura ci aiuta a sopravvivere, a evitare proprio i pericoli letali e le situazioni che ci possono danneggiare. Quindi se da un lato ci crea disagio, dall’altro potenzia le nostre capacità di difenderci stimolando l’attenzione, la cautela, e rendendoci più reattivi. In un momento di pericolo, la paura diventa una preziosa alleata per mettere in atto tutte le difese e i comportamenti necessari per superare il momento difficile.
Ma proprio perché l’essere umano conserva un cervello primitivo, noi “siamo seduti su mondi atavici e ripetiamo senza saperlo la psicologia dell’atavismo cioè di come hanno vissuto le pesti le epoche che ci hanno preceduti”, come ha ricordato lo psichiatra Raffaele Morelli; perciò stiamo vivendo questa emergenza coronavirus esattamente come il Manzoni descriveva la peste del ‘600: la stessa psicosi che serpeggiava nel popolo, le stesse dispute fra scienziati (fra chi minimizzava e chi estremizzava), sino ai lazzaretti sovraffollati e vicini al collasso.
Ma la nostra psiche però non è soltanto la psiche che abbiamo ereditato dai nostri avi, è anche razionalizzazione, è raffinamento di quegli impulsi primitivi che ci fanno percepire un pericolo; è anche altruismo, affettività, generosità, creatività. È ciò che ci permette, o ci dovrebbe permettere, di non lasciare che la paura prenda il sopravvento, evitando così che le aree del cervello più antico, che sono collegate non solo alle emozioni più ancestrali ma anche agli ormoni e al sistema immunitario, indeboliscano le nostre difese e ci rendano paradossalmente più vulnerabili (anche ai patogeni).
Ed è anche ciò che ci consente di tramutare la paura, che questo virus infonde, in opportunità: l’occasione per ripensare individualmente e collettivamente il nostro modo di vivere e di essere, per mettere a frutto le straordinarie risorse della nostra mente, evitando di rimanere confinati negli scantinati del nostro cervello. La sala comando è lì che ci attende.