CONTROVIRUS | La società in gioco

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Ascolta “la società in gioco” su Spreaker.

Legge Manuela Kustermann

di Viviana Kasam
Presidente di BrainCircle Italia

Una bella metafora per i coronavirus è quella di uno sciame di insetti che vola nell’aria alla ricerca di qualcuno da pungere, per alimentarsi e sopravvivere. I virus che non trovano nessuna cellula su cui attecchire, muoiono. Insomma, è una guerra per la sopravvivenza, tra i virus e noi. Una guerra che dobbiamo vincere. E per ora l’unica strategia a nostra disposizione è quella di chiuderci in trincea, sperando che i virus si estinguano per fame, mentre il nostro Stato Maggiore affina le armi: test diagnostici, terapie, vaccini, controlli epidemiologici, strutture d’emergenza.

Sulla guerra tra specie per la sopravvivenza, il testo più illuminante, almeno tra quelli che ho letto, è Il gene egoista (Mondadori) di Richard Dawkin, eminente biologo e straordinario scrittore. Secondo Dawkin, noi saremmo una macchina sofisticata che i nostri geni hanno costruito per sopravvivere individualmente ma anche come specie, riproducendoci e sconfiggendo le altre specie. Ma siamo una macchina fallibile e non è escluso che ci siano altri organismi più adatti di noi a propagarsi, nutrendosi di noi e distruggendoci. È una teoria che analizza l’evoluzione dal punto di vista del gene anziché dell’individuo, già esposta da George Christopher Williams nel suo saggio Adaptation and Natural Selection. Ovviamente, la guerra di sopravvivenza non implica la consapevolezza e la volontà dei geni, ma solo la programmazione insita in ogni essere vivente (piante comprese) a replicarsi con successo. Persino l’altruismo e la socializzazione sarebbero dei comportamenti utili a farci sopravvivere e conseguire il predominio in natura.

E se il coronavirus fosse la “macchina” di un gene più brillante di noi? È ottimista lo storico e filosofo israeliano Yuval Harari, che insegna alla Hebrew Universituy of Jerusalem ed è l’autore del best seller Sapiens. Da animali a Dei: breve storia dell’umanità (Bompiani). “Il virus – ha dichiarato in una intervista alla BBC – lo sconfiggeremo, perché siamo molto più attrezzati che nel passato. In due settimane siamo stati in grado di identificarlo e sequenziarne l’intero genoma, sviluppando test diagnostici”. Secondo Harari riusciremo a mettere a punto, anche se non in tempi brevissimi, vaccini e farmaci, e soprattutto un efficace controllo epidemiologico per proteggerci in futuro da attacchi di altri virus sconosciuti o mutati. Ma qual è il costo sociale e individuale di questi controlli tecnologici, che già in parte sono disponibili? “Abbiamo la possibilità di misurare la febbre a distanza, monitorare gli spostamenti degli individui attraverso i cellulari, fare misurazioni biometriche” spiega Harari. “E questo evidentemente crea un conflitto tra la nostra privacy e la nostra sicurezza. Quanto siamo disponibili a sacrificare la privacy per la sicurezza? E come evitare che la sicurezza sfoci in regimi totalitari?”

Sono domande che molti pensatori si stanno ponendo, ma purtroppo in questo momento, a rischio di una pandemia che potrebbe stroncare l’umanità, la privacy è un lusso che non ci possiamo concedere. L’importante sarebbe di garantire che le misure di sicurezza siano temporanee, ma il Grande Fratello è un mostro tentacolare che si sviluppa al di là delle nostre precauzioni, e il cui controllo diventa utopistico.

Ma oltre alla debolezza della nostra macchina fisica, e a quella delle nostre democrazie, il Covid 19 mette in luce un’altra debolezza del nostro sistema. Ovvero la certezza che la vecchiaia si può sconfiggere e l’eternità è a portata di mano (se non per tutti, almeno per i supermiliardari). La nostra società si basa sull’assunto erroneo che la morte è una sconfitta, e non il termine naturale del nostro percorso terreno; che la vecchiaia è un accidente, e che, grazie a farmaci, a integrazioni meccaniche, a interfacce con i computer, a tecnologie avveniristiche, potremo rimanere giovani, efficienti, eterni, in un futuro dietro l’angolo. Un altro libro magistrale (confinati in casa abbiamo più tempo per leggere) è Essere una macchina di Mark O’Connell (Adelphi) in cui l’autore, un brillante giornalista irlandese, esplora il mondo dell’eccellenza tecnologica per scoprire i segreti dell’eterna giovinezza: macchine al nitrogeno liquido per surgelare corpi (o per i più poveri solo le teste) in attesa di scoprire l’elisir dell’eterna giovinezza. Chips da inserire nel corpo per diventare computerizzati. Sistemi di download del cervello per replicare su silicio la nostra personalità e intelligenza e trasferirla su un altro supporto, organico o inorganico. Viaggi nello spazio per ringiovanire. È il Transumanesimo, ragazzi. Sembrano favole di fantascienza, e invece in questo settore stanno investendo i grandi miliardari di Silicon Valley, come Steve Wozniak, Dmitry Itskov, Elon Musk, o Peter Thiel, il fondatore di PayPal. Basti pensare che Raymond Kurzweil, il guru che ha lanciato il termine Singolarità Tecnologica come completa osmosi tra uomo e macchina, ritiene di poter vivere per sempre (intanto ingurgita 150 pillole al giorno).

Non credo negli avvertimenti soprannaturali. Però è evidente che la pandemia come un hacker sta scardinando le nostre certezze. Non solo quella di essere potenzialmente eterni, ma anche quella di poter disporre del mondo, della natura, delle risorse, a nostro piacimento. La speranza è che, se riusciremo a vincere la guerra contro i virus, ne usciremo più consapevoli dei nostri limiti, più rispettosi verso il Pianeta, più capaci di sfuggire all’accelerazione esponenziale delle nostre vite e dei nostri consumi, per ritrovare un migliore equilibrio con noi stessi, con chi ci sta intorno e con la Natura.