CONTROVIRUS | Covid e cervello

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Intervista di Viviana Kasam (Presidente di BrainCircle Italia) al prof. Giancarlo Comi, direttore dell’Istituto di Neurologia Sperimentale presso l’Istituto San Raffaele, e professore onorario di Neurologia all’Università Vita-Salute San Raffaele. Comi è anche vice presidente del Comitato Scientifico della International Federation of Multiple Sclerosis, per conto del quale ha contribuito alla produzione del COVID 19 advice for multiple sclerosis patients ed è coautore di alcuni recenti articoli sull’argomento, pubblicati o sottomessi a riviste prestigiose come Lancet Neurology e JAMA Neurology.

Professor Comi, uno dei sintoni della malattia è la perdita di gusto e olfatto. Questo potrebbe indicare una ripercussione sul cervello?

È una domanda interessante, perché in effetti il 30-50% dei malati perdono in un sol colpo gusto e olfatto. Ed è un sintomo altamente suggestivo del Covid-19, mentre per esempio la febbre può manifestarsi per molte altre patologie. Lo potremmo definire il “marchio di fabbrica” del Covid 19 e ci è utile per riconoscere subito la malattia. Non sappiamo con certezza perché avvenga. Una prima ipotesi è che il virus presente a livello delle mucose nasali, della faringe e della lingua potrebbe causare un malfunzionamento dei recettori. Ma se così fosse, perché non si manifesta in tutti quelli in cui rileviamo la presenza del coronavirus? Una ipotesi alternativa è che il virus risalga attraverso le fibre nervose afferenti, raggiungendo le aree olfattorie e gustative del sistema nervoso centrale, le seconde situate nel bulbo cerebrale. Il bulbo cerebrale contiene anche aree preposte al controllo di funzioni vitali come il respiro e la frequenza cardiaca. Ci potrebbe essere una disfunzione dei centri respiratori per diffusione locale del virus, o anche perché il virus potrebbe risalire da afferenze nervose che provengono dal polmone e si connettono direttamente al centro del respiro. La possibilità di un contributo a determinare la gravità dei problemi respiratori anche da parte di un alterato controllo nervoso del respiro spiegherebbe, come mi hanno anche riferito i colleghi rianimatori, le difficoltà che a volte insorgono quando si estubano questi pazienti, ovvero li si stacca dal respiratore: “alcuni pazienti sembra che abbiano disimparato a respirare”.

Il Covid 19 non colpisce solo i polmoni. Lei parla del cervello, ma si sono riscontrati anche seri problemi a livello vascolare, tant’è vero che ci sono molte proposte di trattare la malattia con anticoagulanti.

Quello che lascia tutti perplessi è la grande variabilità individuale dei percorsi e il fatto che in molti dei pazienti più gravi insorgono complicanze che con l’aspetto polmonare non hanno molto da spartire. Per esempio, si sono riscontrate alterazioni importanti nella funzionalità dei vasi per un tropismo nelle loro pareti interne, con conseguenti problemi di coagulazione vascolare diffusa, che ostacola il flusso del sangue e causa danni a organi come i reni, il cuore e anche il cervello per il minor apporto di ossigeno. Per cercare di prevenire questo tipo di condizione si è suggerito di mettere in atto terapie anticoagulanti Si è poi individuato che sono in gioco anche risposte immunomediate, cioè non dovute a una azione diretta del virus ma modulate dalla reazione immunologica al virus stesso. Succede anche in altre patologie, come la leucoencefalopatia multifocale progressiva provocata dal virus JC che si annida nel cervello e ne distrugge la sostanza bianca. In persone che hanno il sistema immunitario indebolito, magari perché assumono farmaci immunosoppressori. In quest’ultimo caso la reazione immunitaria avviene quando la sospensione del farmaco rimette pienamente in funzione il sistema immunitario. A quel punto nella sede di infezione si ha una violenta reazione infiammatoria con accumulo di linfociti e macrofagi e una tempesta di citochine. Il tessuto nervoso già danneggiato dal virus è trasformato in un campo di battaglia che per un certo tempo può contribuire a incrementare il danno. Partendo da queste osservazioni, si è perciò pensato di trattare i pazienti COVID 19 con farmaci che producessero una inibizione o almeno una forte riduzione della risposta infiammatoria. Da qui gli studi sugli anti-interleuchina 6, che è una potentissima citochina infiammatoria: bloccandola, la reazione infiammatoria si riduce di molto. Non essendo un virologo né un infettivologo, di più non posso dire. Però sono in corso studi sia italiani che multicentrici internazionali attraverso i quali cerchiamo di capire se persone con sclerosi multipla, che assumono terapie che riducono l’efficienza del sistema immunitario o lo modificano, migliorino l’evoluzione dell’infezione da SARS-CoV-2.

Ma gli antinfiammatori deprimono il sistema immunitario. Chi li assume, non dovrebbe risultare più esposto al virus?

È una situazione paradossale, che peraltro abbiamo verificato anche in uno studio su 400 pazienti di sclerosi multipla che stiamo seguendo da un anno nell’ambito di un progetto che coordino per l’Unione Europea. Questi pazienti sono monitorati quotidianamente grazie a dispositivi indossabili – i braccialetti Fitbit –, smartphone e interviste telefoniche per valutare vari parametri: sonno, fatica, umore, che interessano il decorso della malattia. Quando è scoppiata la pandemia, abbiamo pensato che potevano costituire un campione significativo per avere un quadro epidemiologico e comportamentale in questa popolazione di cui possiamo ricostruire tutti i movimenti.

Il risultato?

Lo studio, che è stato sottomesso in questi giorni su Lancet Digital Health, fornisce indicazioni interessanti. I pazienti sono distribuiti in tre città, due molto colpite dal Covid 19, Milano e Barcellona, una molto meno, Copenhagen. Il dato più eclatante è la percentuale di persone che hanno contratto la malattia, in forma più o meno severa. È il 9,1%. Se questi risultati si potessero trasferire all’intera popolazione, vorrebbe dire 5/6 volte il numero di malati stimati finora. Lo studio ha anche dimostrato che i nostri malati sono stati molto ligi nel seguire le indicazioni di isolamento emanate dal governo e rinforzate dal documento di cui sopra. Nel giorno stesso in cui è stato detto di non muoversi, la loro mobilità fuori casa, stimata dal giroscopio dei cellulari, è andata a zero. In tutte e tre le città. Ora dobbiamo studiare i contatti che i singoli pazienti, sia quelli che hanno contratto la malattia sia quelli rimasti sani, avevano avuto nella fase precedente al lockdown, dati di cui disponiamo e che potrebbero fornire indicazioni interessanti sulla epidemiologia del Covid 19.

Ma le persone affette da sclerosi multipla assumono spesso farmaci immunologici. Non risultano perciò più esposti, in quanto il loro sistema immunitario è più debole?

Potrebbe essere, e infatti nelle indicazioni che abbiamo prodotto raccomandiamo cautela nella prescrizione di terapie molto aggressive, tuttavia come avevo già detto potrebbe anche essere che alcuni di essi esercitino un ruolo protettivo, proprio perché potrebbero attenuare la risposta immunologica control il virus. Questo lo sapremo presto dai risultati degli studi in corso.

L’età del vostro campione?

Relativamente giovani. L’età media di esordio della malattia è intorno ai trent’anni.

Secondo te le persone fragili, come i vostri malati, o gli anziani, dovrebbero essere tenuti isolati più a lungo, anche nella fase 2?

Sono assolutamente contrario a una selezione basata su criteri di età o di fragilità. Certo, l’intento di un simile provvedimento potrebbe avere l’obiettivo di proteggere questa fascia di persone. Ma credo che oggi siamo consci dei rischi a cui ci possiamo esporre e che potrebbero comportare conseguenze più gravi in considerazione dell’età e della fragilità, spetta quindi a noi proteggerci e agire con giudizio. L’unico criterio per isolare delle persone selettivamente dovrebbe essere l’eventuale rischio che queste persone infettino altri e costituiscano quindi un rischio per il resto della popolazione. Ma da questo punto di vista, tra le persone che potrebbero essere rimesse in circolazione nella cosiddetta fase 2, i più pericolosi come veicolo di infezione sono i giovani, che spesso manifestano sintomi lievi o rimangono asintomatici, e quindi circolano liberamente. Gli anziani e le persone fragili sviluppano invece i sintomi molto rapidamente e più gravemente, il che li rende meglio identificabili. Inoltre, tendono a curarsi e proteggersi proprio perché sono consapevoli della loro fragilità. Va anche tenuto in considerazione che sono la fascia con più necessita di attività e di riprendere attività sociali. Tenerli chiusi in casa non solo è anticostituzionale e inutile, ma anche dannoso e crudele. La prudenza deve valere non solo nei confronti degli anziani ma di tutti. La fase 2 va programmata come il percorso su un terreno minato. Non si fa un passo avanti finché non si hanno i piedi al sicuro.